Manoscritti e miniature

Il manoscritto

La realizzazione dei codici
Il lavoro dei copisti
L'esecuzione delle miniature

 


Nicolaus de Lyra, Postillae super Psalmos (D. VI. 3. Cesena, Biblioteca Malatestiana

 

 

La realizzazione dei codici

 

Solitamente gli antichi codici venivano realizzati con fogli in pergamena.

La pergamena si ottiene dalle pelli di ovini, caprini e bovini lavorate secondo un preciso procedimento.
La pelle appena scuoiata veniva immersa in acqua per pulirla e, se essiccata onde evitare la putrefazione, reidratarla. Se la pelle rimaneva sufficientemente a lungo immersa nell’acqua la depilazione era assai semplice e veloce: bastava infatti passare la mano esercitando una leggera pressione, diversamente si potevano usare alcuni strumenti quali bastoncini di legno o sottili coltelli ricurvi senza filo. 
Una volta completata la depilazione la pelle veniva sistemata su un cavalletto e con un apposito strumento si eliminavano i residui di peli e eventuale grasso epidermico. Finita anche  questa operazione la pelle veniva tesa su un telaio di forma rettangolare per la scarnatura: con un coltello si eliminavano i brandelli di carne ancora attaccati alla pelle che diventerà la pagina del libro. Veniva infine messa sotto tensione ed essiccata lontana dal sole per poi essere levigata leggermente con pietra pomice o altri materiali abrasivi.
Talvolta si rifiniva sbiancandola o rendendola ulteriormente più sottile tramite diversi procedimenti. 

 

Il lavoro dei copisti


Il lavoro dei copisti (o Amanuensi) era la parte più importante di tutto il lavoro. I copisti, per lo più monaci, ricopiavano i testi sul codice in creazione usando, in base al periodo, diverse calligrafie tra cui la calligrafia Carolina (diffusasi durante l’epoca di Carlo Magno) e quella gotica (Utilizzata dopo la nascita delle università) che sono tra le più utilizzate e presenti nei codici della biblioteca. 

Prima di cominciare a scrivere il copista doveva tracciare la rigatura sulla pergamena, procedimento solitamente effettuato con l’uso di un “pecten”, uno strumento che permetteva di tracciare simultaneamente gruppi di righe orizzontali.
Per scrivere utilizzavano solitamente una penna di un qualche volatile e per temperarla si utilizzava un coltellino, chiamato scalprum. In base a come si temperava la penna anche la scrittura aveva una forma diversa: se tagliata !a becco d’aquila” (con una punta dura e sottile) la scrittura era uniforme e sottile, se veniva tagliata “zoppa a destra o a sinistra” si otteneva uno stile di scrittura spesso e contrastato. A fianco il copista teneva numerosi calamai contenenti l’inchiostro nero o colorato.
Quando, nemmeno tanto raramente, si commettevano errori di copiatura si raschiava la parte interessata con un raschietto o con un tratto di penna. Venivano lasciati in bianco gli spazi destinati alle miniature, ai titoli e alle parole da evidenziare di cui si occuperanno più tardi i miniatori e i rubricatori. 
Alla fine del lavoro il copista lasciava una sorta di firma con il proprio nome, la propria qualifica e altri elementi come date, committenti e, talvolta, preghiere.

 

L'esecuzione delle miniature

 


Sant'Agostino, De civitate Dei ( D. IX. 1). Particolare dell'incipit. Cesena, Biblioteca Malatestiana

 

Anche tra i miniatori esisteva una gerarchia: al miniatore principale spettava di realizzare le prime pagine ed i disegni più importanti mentre i fregi o le pagine secondarie erano affidate a dei collaboratori. 
Oltre all’illustrazione, il miniatore, doveva occuparsi di operazioni che possono apparire secondarie come la preparazione dei colori e la costruzione degli strumenti.
Soffermandoci un momento su quest’ultimi troviamo i pennelli formati dalla cannula di una penna di volatile che veniva fissata ad un’asticciola di legno affusolata e da setole legate strette alla cannula.

 


Sant'Agostino, In Joannis Evangelium Sermones. Cesena, Biblioteca Malatestiana.

 


Per tracciare il disegno utilizzavano la stilo in osso o con punta metallica. Completavano gli strumenti alcuni calamai per ripassare i contorni delle figure, le ciotole per impastare i colori e le conchiglie per contenerli. 
La preparazione dei colori richiedeva molto tempo e fatica. Bisognava prima macinare i colori dentro mortai di bronzo. Si trattava più che altro di terre colorate come la terra di Siena, l’ocra gialla dell’Elba e l’azzurro oltremare derivato dalla pietra del lapislazzuli. Il nero si preparava bruciando alcune resine raccogliendone poi la fuliggine prodotta – nerofumo – mentre per il bianco si utilizzava la biacca una sostanza ottenuta dal piombo all’epoca usata anche come cosmetico.

 


Stemma di Malatesta Novello. Cesena, Biblioteca Malatestiana.

 


La prima fase della miniatura era il disegno. L’immagine veniva abbozzata con la stilo o, più raramente, veniva direttamente ricalcata da un altro codice.
Dopo aver realizzato il disegno si passava alla doratura. Per prima cosa si stendeva il legante poi il miniatore collocava la fogli d’oro abilmente ritagliata e premeva con un batuffolo di cotone per farla aderire. Quando non si poteva utilizzare un metallo così prezioso come l’oro si doveva ricorrere ad un surrogato che ne imitasse l’effetto: la porporina. 
La terza fase era quella della stesura dei colori. Prima i colori venivano stesi per grandi campiture e solo in un secondo momento si modellavano i volti, i particolari e le varie dimensioni aggiungendo ombreggiature e luci particolari. Quando i colori erano finalmente asciutti il tutto veniva rifinito con l’inchiostro particolari dettagli che rendono le immagini così realistiche.

 

Aloisi, Dradi, Sintucci, Valentini. 

 
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