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L'urlo

L'Urlo è  uno dei capolavori più celebri di Munch e dell'arte contemporanea in generale.
E’ l’opera dove il simbolismo di Munch si fa più maturo e il suo messaggio più angosciante. Ha una qualità altissima, perchè chiunque, almeno una volta nella vita si può riconoscere in questo quadro.

Munch descrive la sua opera, ma già il titolo è significativo.
Non c'è migliore spiegazione del quadro di quella fornita dal suo stesso autore: <<Camminavo per strada con due amici. Il sole era al tramonto e cominciavo a sentirmi avvolto da un senso di malinconia. A un tratto il cielo si fece rosso sangue. Mi fermai, appoggiandomi a una staccionata, stanco morto, e fissai le nubi infiammate che gravavano, come sangue e spada, sul fiordo nero-bluastro e sulla città. I miei amici continuarono a camminare. Io rimasi inchiodato in piedi, tremante di paura e udii un grido forte e infinito trafiggere la natura>>.

Il grido a cui si riferisce l'artista e che diventa il soggetto assoluto dell'opera probabilmente era stato lanciato da uno degli internati del vicino manicomio di Ekeberg,  la località presso Oslo in cui si trovava anche il ponte su cui stava passando Munch. Quell'avvenimento deve avere scosso profondamente l'artista,  ossessionato per tutta la vita dalla paura della follia e della malattia. Lui infatti racconta di essersi fermato, sconvolto da quel suono, mentre i suoi amici hanno continuato la loro strada, consapevoli della presenza del manicomio e quindi non turbati dal grido di un malato mentale.

Il sentimento dell'angoscia viene trasferito allo spettatore non soltanto dal tema e dai colori, ma anche da alcune peculiarità della composizione.
La figura del personaggio in primo piano parte dal centro del quadro, in basso, ma poi devia leggermente senza peraltro arrivare a occupare decisamente la destra del quadro. Il bordo superiore della testa occupa quasi il centro della linea mediana della tela, ma il centro dell'attenzione, l'ovale nero della bocca, risulta spostato verso il basso e oppresso dalla parte alta della composizione, più forte anche in termini di colore.
Rispetto alla struttura consueta delle opere che contrappongono una figura umana a uno sfondo, come la ritrattistica più comune, la figura non occupa, dunque, un posto di rilievo o, comunque, la posizione che ci attenderemmo. Ciò provoca un senso di fastidio, il disagio di una situazione di squilibrio, disarmonia. Lo spazio sembra distorcersi sotto i nostri occhi.
Munch qui ci impedisce di identifìcare la sua composizione con un qualsiasi schema già praticato dalla storia dell'arte e dunque, in un certo senso, "accomodante". Il quadro è diviso dalla diagonale della staccionata: manca un piano orizzontale evidente, una base sicura su cui appoggia la figura e il nostro stesso sguardo.

Il soggetto del quadro, come è indicato dal titolo, è l’urlo. Il suono acuto, lacerante che si sente all’improvviso e rappresenta in senso generale l’espressione dell’angoscia, del dolore e della paura. L'urlo parte dalla bocca spalancata della figura in primo piano e per la sua forza prorompente gli distorce la faccia che diventa un teschio, il corpo, privo di consistenza, diventa un'ombra ondeggiante (come un ectoplasma). Uscendo da lui l’urlo stravolge il personaggio e sembra portargli via anche la sua consistenza concreta, lo lascia ridotto a una larva inconsistente. Proseguendo il suo percorso, l’urlo trascina via tutto, come una corrente gigantesca: trascina il paesaggio, risucchia il mare, il cielo, tutto l'universo in un gorgo che poi rifluisce e finisce di nuovo in questa bocca, come una massa liquida dentro uno scarico. La bocca da cui fuoriesce l’urlo, è nera e ovale, prima genera e poi raccoglie l’urlo. Tutta la scena è la metafora della disperazione e della morte che nasce nell’individuo, esce, travolge, spazza via tutto, poi torna nell’individuo distruggendolo.
La figura in primo piano, terrorizzata, disperata, si comprime la testa con le mani per far uscire l’urlo e la vita stessa: esprime la solitudine, l’isolamento della sua individualità, il dramma collettivo dell’incomunicabilità dell’umanità intera.

Questo personaggio non è un uomo, è uno spettro, un fantasma. Al posto del corpo ha un’ombra densa e ondeggiante, al posto della testa ha un cranio repellente, senza capelli, come un sopravvissuto a una catastrofe atomica. Le narici sono due fori, gli occhi sbarrati sembrano aver visto qualcosa di terribile, insopportabile, le labbra nere rinviano a quelle dei cadaveri. L’urlo è quello di chi ha perso sé stesso, il senso della vita, non trova più nulla a cui aggrapparsi, si sente solo e inutile fra gli altri.

Il ponte, in salita, la cui prospettiva si perde all’infinito richiama i mille ostacoli dell’esistenza di ognuno di noi che a volte sembrano essere insuperabili.
Il cielo è fatto di sangue, il mare è una massa nera oleosa.
Quello che non viene toccato da questo fatto terribile è la strada con i due personaggi a sinistra, che sembrano dei soldatini meccanici, ignari di tutto. Continuano a camminare, ignari o indifferenti al suo sgomento, alla sua lacerante disperazione. Rappresentano in modo crudo e lucido la falsità dei rapporti umani che Munch spesso denuncia.
Il contrasto tra la figura spettrale in primo piano e i due uomini a sinistra, mette in luce come di fronte ad uno stesso fatto increscioso, come in questo caso una manifestazione di dolore, la reazione delle persone è diversa, in base alle diverse sensibilità e stati psicologici: l'ipersensibilità scossa dell'artista porta ad una reazione di terrore e alla perdità di lucidità (quasi all'allucinazione), mentre l'atteggiamento più distaccato degli amici, permette di "proseguire la strada" senza farsi trascinare da quella terribile catastrofe emozionale descritta da Munch. I due personaggi infatti sono anche posti ai margini della scena, come se stessero per uscire da quadro. In questo senso 'non sono toccati' da quel grido di disperazione e possono mantenere il loro equilibrio grazie alla loro indifferenza e alla loro volontà di 'non ascoltare'.
Dal punto di vista della biografia dell'artista, il quadro potrebbe rimandare alla perdita precoce della madre; si è anche ipotizzato che il cielo rosso rimandi al sangue della madre morente, vista da Munch bambino in una crisi di tubercolosi. L'andamento labirintico delle curve al di sopra della testa sembra un prolungamento delle ellissi concentriche della bocca, del viso mummificato dalla paura, delle mani intorno alle orecchie. I fiordi e il cielo, la natura, diventano prolungamenti del sentire del protagonista, un labirinto fatto di linee ondulate, seguendo le quali l'occhio vaga senza punti di riferimento stabili: ricordiamo che il timore della perdita dell'equilibrio psichico, di cadere nella follia, caratterizzò l'intera vita dell'artista.

Da un punto di vista più generale, il quadro indica una compenetrazione tra le sensazioni individuali e la natura, che ricorda la sinestesia (unione di sensazioni provenienti da organi diversi) cara al poeta francese Baudelaire e a tutta la filosofìa e la letteratura del Romanticismo, soprattutto nella sua versione tedesca. Mentre, però, molti romantici del Primo Ottocento vedevano in questa compenetrazione un segno di armonia tra uomo e mondo, in questo caso l'armonia si spezza; la natura non regala più all'uomo alcuna serenità.

L'isolamento della figura in primo piano rinvia anche ad un senso di solitudine profonda, simile ad un sentimento di lutto: l'individuo si sente abbandonato e impotente di fronte ad un dolore troppo grande per essere contenuto o controllato. Per questo fa uscire da sè la propria disperazione e la trasferisce nella natura e nella realtà che lo circonda avvolgendo ogni cosa con colate di colori di sangue (il rosso) e di lutto (il blu-nero).

La vita stessa, rappresentata simbolicamente dalla strada è una ripida pista scoscesa, impossibile da percorrere da chi si sente paralizzato e privo di forze, come un morto, senza più corpo.

A. Cocchi


 

Bibliografia e sitografia

G. Cricco F.P. Di Teodoro, Itinerario nell'arte Zanichelli  Bologna 1996
E. di Stefano. Munch. Dossier Art n. 96, Gruppo editoriale Giunti, Firenze 1994
O. Calabrese, Comunicarte. Storia dell’arte, storia delle idee. Vol. 5
G. Dorfless, A. Vettese Arti visive. Protagonisti e movimenti. Il Novecento. Istituto Italiano Edizioni Atlas, Bergamo 2006

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