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Le interpretazioni sulla Tempesta

Nella raccolta Vendramin questo celebre dipinto di Giorgione era indicato come "Mercurio e Iside". Ma sull'iconografia della Tempesta del Giorgione sono state offerte interpretazioni numerose, molto discordanti, e seppure anche suggestive e ingegnose, non corredate da documenti sicuri.

Ferriguto sostiene che si tratti di un'allegoria della natura.

Richter
invece sostiene che il dipinto sia riferito all'infanzia di Paride.

In base all'ipotesi, condivisa da diversi studiosi, di un'origine illegittima di Giorgione (comunque non attestata da documenti), il Morassi e altri sostengono che nel dipinto l'artista abbia voluto riferirsi alla sua vicenda personale.

L'interpretazione di Stefanini propende per una derivazione da Polifilo di Francesco Colonna.

Qualcun altro riconosce nella donna la ninfa Io che allatta il figlio Epafo, sorvegliata da Mercurio.

Altro rinvio mitologico è offerto dalla proposte che si tratti della nascita di Bacco.

A questo si contrappone l'idea di una rappresentazione biblica dei progenitori Deucalione e Pirra dopo il diluvio.

Su una linea simile si muove Salvatore Settis, che propende per una scena tratta della Genesi: Adamo ed Eva con il piccolo Caino dopo la cacciata dal Paradiso terrestre. A questa va collegata la rappresentazione del rilievo eseguito da Giovanni Antonio Amadeo per la facciata della cappella Colleoni a Bergamo. Ma con alcune differenze: nella versione di Amadeo Adamo è nudo nudo e al posto del fulmine è scolpita l'immagine di Dio. La tempesta di Giorgione, secondo Settis, potrebbe alludere  alla condizione umana dopo la cacciata dal Paradiso terrestre, le colonne alla fugacità  della vita umana e le rovine alla morte del paganesimo con l'avvento dell'era cristiana.
Ma la rappresentazione del fulmine potrebbe essere anche un raffinato modo da parte di Giorgione di paragonarsi al grande pittore greco Apelle, che le fonti antiche tramandano come abilissimo nel dipingere il bagliore dei lampi.

Si suggerisce anche il tema del Ritrovamento di Mosè, e la città  sullo sfondo, in cui si riconoscono forme orientaleggianti, viene identificata come una città  d'Egitto.

Sostenendo che il committente dell'opera fosse Bartolomeo Campagnola, e non il Vendramin, Guidoni in una sua ricerca riconosce nella città  sullo sfondo Padova e sostiene che si tratti di un'allegoria della fondazione di Padova da parte di Antenore. Lo studioso riconosce nelle costruzioni e nella torre il Castello di Ezzelino e gli stemmi di Venezia e dei Carraresi sulle porte della città .
Antenore, identificato nel soldato in primo piano, dopo la sua fuga dall'incendio che devastò l'antica Troia, giunse in Italia e fondò la città  di Padova.

Altra possibile lettura è quella dell'allegoria di due virtù: la fortezza, (l'uomo) e della carità  (la donna), soggette alla fortuna (il fulmine).

Secondo Calvesi, la fusione di temi cristiani e pagani ha probabili riferimenti all’alchimia e alla filosofia neoplatonica,  ma anche al sapere esoterico appartenenti alle cultura dell’aristocrazia veneta.
L’armonia dei colori può essere un riferimento al concetto del mondo come armonia retta dall’amore divino, tema centrale del neoplatonismo.  In quest’ottica può essere colta  la rappresentazione del matrimonio del Cielo (uomo-Mercurio) e della Terra (donna che allatta-Gea).
La città  sullo sfondo indicherebbe l’Egitto, le rovine l’antica sapienza mercuriale, le colonne e il fulmine, rispettivamente la salita e ridiscesa di umori liquidi, aerei e del fuoco. Più in generale il mescolarsi dei colori sulla tela alluderebbe alla fusione degli elementi naturali, simile al ribollire dei metalli e delle sostanze negli alambicchi degli alchimisti, cultori dell’antica sapienza mercuriale.

A. Cocchi


Bibliografia.

A. Gentili. Giorgione. Dossier Art n.148. Giunti. Firenze, 1999
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F. Negri Arnoldi Storia dell'arte vol III. Fratelli Fabbri Editori
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