Van Gogh, Milano 1952

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VAN GOGH 1952
NOSTALGIA PER I FAVOLOSI ANNI ’50 DELL’ARTE A MILANO.
UNA BELLA MOSTRA RIUSCITA A META’

Nella lunga collana delle mostre d’arte a Milano, che si sgrana dal dopoguerra ai nostri giorni, due perle soprattutto brillano ad illuminare i remoti e per un certo verso favolosi, almeno per l’arte, anni ’50: la mostra di Van Gogh dal 23 febbraio all’8 maggio 1952 e la mostra di Picasso del 1957, entrambe a Palazzo Reale in piazza del Duomo.


Sia dell’una che dell’altra poco o nulla conoscevo fino ad alcune settimane fa, essendo io, nato nel 1946, allora bambino. Ma le rare volte che ne sentivo parlare, mi rimaneva un senso di vuoto e di amarezza per una cosa perduta per sempre e irripetibile. Finchè un bel giorno il mio fiuto di animale da biblioteca non mi porta dritto dritto davanti a uno scaffale della libreria Bocca in Galleria del Duomo, specializzata in cataloghi d’arte. 

Cerco subito la sequenza di libri disposti in ordine alfabetico alla lettera V come Van Gogh. Schiacciato tra monumentali monografie noto un libriccino rosso, ancora ben conservato, con scritto in copertina:”Vincent Van Gogh-Milano-Palazzo Reale, febbraio-aprile 1952”.
Lo sfoglio con avidità fino all’ultima pagina, dove noto una scritta a matita:

I quadri di questa mostra non sono originali,perché l’Olanda non si è fidata e ci ha mandato delle copie”.

Ho come una folgorazione. Chiedo al proprietario della libreria di chi era questo libriccino. ”E’ della signora Zita Mosca, vedova dell’architetto Luciano Baldessari, uno dei mostri sacri dell’architettura milanese tra le due guerre e oltre”.

Mi faccio dare il numero di telefono.
Chiamo più volte la signora Mosca Baldessari, che incontro una sera alla galleria d’arte Fonte d’abisso, in via del Carmine, dove mi consegna 15 fotografie di quella mostra.
Vado più volte alla biblioteca Sormani, dove trovo tutti gli articoli apparsi in quei lontani giorni del 1952 sul Corriere della Sera, sulla Stampa, su Oggi e la Domenica del Corriere.

Col numero di telefono avuto da Rossana Bossaglia rintraccio a Milano, dove vive, il signor Arno Hammacher figlio del professor A. M. Hammacher, oggi ultranovantenne, forse il più accreditato esperto di Van Gogh esistente al mondo, che oggi vive a Bruxelles, ma mi dice il figlio che viene due volte all’anno ad Abano Terme.
Tramite lui ritrovo negli archivi della Publifoto una serie incredibile di fotografie dell’inaugurazione della mostra.

Comincio una sera a studiare analiticamente tutto questo materiale. Da questo momento inizia per me un’avventura che mi porta dritto indietro di circa 40 anni, quasi una macchina del tempo che cerco di dominare meglio che posso.

Mi ritroverò di colpo buttato nelle sale di Palazzo Reale, smarrito come un fantasma, in un sogno, che dovrò cercare di vivere fino in fondo, prima che si spenga.


E’ il 23 febbraio del 1952, sto andando all’inaugurazione della mostra di Van Gogh.

Il clima di attesa è alimentato dal Corriere della Sera che ne parla nei giorni precedenti a più riprese.
Ho acquistato con anticipo il catalogo lussuoso, costo £….., che ho già sfogliato avidamente, trovando conferma delle 127 opere, che potrò ammirare, 73 oli e 54 disegni provenienti in gran parte dal museo nazionale olandese Kroller-Muller di Otterlo e da collezioni pubbliche e private europee.


Salgo lo scalone al primo piano e d’incanto mi trovo nella prima sala.
Un grande girasole giallo del pittore Attilio Rossi campeggia sul pavimento vinilico e si intravvede appena, calpestato dai presenti con noncuranza.

Ma come, mi chiedo guardandomi attorno, dove sono i quadri dei pittori amici di Van Gogh della Scuola dell’Aja?.

Pareti nude già nella prima sala, solo una bacheca a sinistra con la bibliografia vangoghiana e a destra una sequenza di disegni di Vincent del periodo maturo.

Ma non originali.

Fotografie incorniciate. Lo capisco subito dalle false dimensioni di alcuni disegni.

Le cornici sono semplici, di listello bianco, ma tutte uguali (dimensioni circa cm. 30x40) mentre gli originali di alcuni disegni rappresentati, lo so, sono sicuramente di dimensioni più grandi.

In mezzo a quella folla mondana che non coglie certe sfumature, e che vocifera allegramente, ho come un senso di amarezza solitaria, mi sento già un po’ tradito nelle mie aspettative.


Un po’ deluso mi faccio strada e guadagno la seconda sala dove intravvedo vicino a un microfono le massime autorità cittadine, l sindaco Ferrari, l'assessore alla cultura Cattabeni e in rappresentanza del governo il senatore Vischia, sottosegretarioalla Pubblica Istruzione, che attacca la prolusione.

Mi guardo attorno e a sinistra la parete è vuota, solo sulla parete di fondo, soffocato dalla folla, scorgo Vincent con cappello di feltro grigio, che ci guarda severo, in un quadro proveniente dallo Stedelijk museum di Amsterdam.

A destra in sequenza sulle pareti ai lati di una bacheca illuminata, una serie di fotografie dei luoghi d’Olanda e delle persone care a Vincent: il padre, la madre, il fratello, i ritratti fattigli da Toulouse Lautrec, da Russel, da Gauguin, mentre dipinge i girasoli e un autoritratto dello stesso Gauguin con in capo un’aureola, che all’epoca fece molto arrabbiare Van Gogh.

Poi le tombe dei due fratelli a Auvers, il presbiterio di Etten, la casa natale di Groot Zundert.
La quarta parete della grande sala è però anch’essa vuota.
Dopo il senatore Vischia prendono la parola il sindaco prof. Virgilio Ferrari e il conte Van Bylandt, ministro plenipotenziario d’Olanda a Roma, poi le autorità iniziano la visita della mostra, seguite da una fiumana di gente che vocifera allegra; ma finora di Van Gogh, di quanto elencato meticolosamente in catalogo, nemmeno l’ombra.

Proseguiamo.


Finalmente nella terza sala, molto grande, la folla si dilata e con gioia stavolta vedo sulle pareti ampie predisposte dall’architetto Baldessari, una sequenza notevole dei primi disegni fatti da Vincent al Borinage e all’Aja.

Un tuffo al cuore per me che li vedo dal vivo per la prima volta.
Li riconosco tutti. L’eccitazione è grande e mi toglie lucidità.

La gente vocifera allegra ma io so tutta la storia di questi disegni e l’emozione mi serra la gola.
Finalmente opere originali e non semplici fotografie.


Dal corridoio, che è individuato da una lunga passatoia con segmenti che portano davanti alle opere migliori, scorgo la quarta sala, quella delle opere di Nuenen, oli e disegni e indugio un poco quasi per non affrettare l’incantesimo.

Tessitori, paesaggi, teste di contadini, nature morte, si snodano sotto i miei occhi increduli.
Opere vere, originali, ne sono sicuro; controllo sul catalogo, alcune opere mancano, ma poche, di questo periodo.


Nella quinta sala, ancora del periodo di Nuenen, due oli, il Cappello di paglia con pipa e il Viale di pioppi d’autunno, poi alcune opere di Anversa e Parigi, oli e disegni.


La sesta sala è spoglia, peccato; a destra due file di pannelli fotografici sovrapposti: sotto le fotografie di alcuni luoghi, sopra la visione degli stessi ripresa da Vincent in quadri memorabili ma non qui disponibili.
Di fronte, mentre il corridoio vira di novanta gradi, pannellini di fotografie di lettere di Vincent con suoi schizzi; a sinistra una intera parete nuda.

Ma come faranno, dico io, a farci stare in questa mostra tutte le opere previste nel catalogo, con questa dispersione?
Mi assalgono i primi dubbi che di opere vere ne vedremo alla fine molte meno delle 127 annunciate.


Dopo la curva del corridoio ecco la settima sala, dove mi aspetto le sfolgoranti opere di Arles, il periodo felice di Vincent, almeno fino alla vigilia di natale del 1888.
I natali di Vincent non sono mai stati belli e anche le sue domeniche non sono mai state belle.

Ora le sale sono più piccole, i quadri sono i più famosi e la folla si ingroppa.
Fatico a procedere, ma già intravvedo i grandi capolavori.

Nella settima sala, di fronte già scorgo i Covoni di fieno e lo stupendo Ponte di Langlois.

Come mai, mi chiedo,questi primi quadri arlesiani hanno cornici così sciatte e addirittura contornate da un passepartout di oltre 10 cm? L’impressione è che perdono qualcosa, diventano dispersivi.
Da alcune foto del museo Kroller-Muller che ho in mente, e da dove provengono questi quadri, mi ricordo cornici più sontuose, barocche; come mai allora sono state tolte queste opere dalle cornici originali?

Mah! Proseguiamo.
La folla sciama, vociferando allegramente.


Qui ecco l’ottava e la nona sala, piccole, con grandi capolavori affiancati uno all’altro, che non ti danno il tempo di emozionarti per quello prima, che subito te ne trovi di fronte un altro più bello.
L’Esterno di caffè di notte, Il sottotenente Milliet….

Anche qui però le cornici sono strane.

Finalmente vedo la folla dilatarsi in uno spazio maggiore.
Siamo giunti nel salone del bar, cadenzato da colonne greche e capitelli, con tende e specchi sontuosi alle pareti, con tavolini tondi e sedie rococò. Sui tavolini campeggiano vasi con alti tulipani, omaggio alla terra d’Olanda, che ci ha regalato questo genio universale. Qui la gente staziona a piccoli gruppi,sorseggiando aperitivi e caffè, i commenti mi sembrano lusinghieri, i quadri piacciono.

Sono solo e ne approfitto per procedere alle successive sale, che per effetto della sosta al bar, sono meno affollate.


E’ l’ultimo pezzo di mostra, che inizia con la decima sala, detta di Saint Rémy: opere stupende, segnate per Van Gogh dalla paura e dal furore di reagire alla malattia, che lo soffoca, ma anche da una visionarietà serena, alle volte.

Ecco il Campo di grano verde, che vedeva dalla finestra della sua camera dell’ospizio per pazzi; aveva le sbarre, che qui non si vedono. E poi il Burrone dei Peroulets, dove in una giornata ventosa del luglio del 1889 viene assalito da una delle crisi epilettiche più atroci, mentre dipinge, accompagnato da uno dei guardiani dell’ospizio, Jean François Poulet.
E lo stupendo Strada con cipressi sotto le stelle, opera calma e misteriosa, anche se percorsa da un fremito nascosto, sotterraneo.


Passo alla undicesima sala, detta di Auvers, anche se vi trovo opere ancora del periodo di Saint Rémy:il Paesaggio montano, poi il Castagno in fiore e il Campo con papaveri alti.

Ho sempre l’impressione che le cornici, sciatte e con passepartout, non siano originali.
E allora mi assale un atroce dubbio: che forse non siano originali neppure i quadri?
Che per paura che si rovinassero ci hanno mandato delle copie ben fatte, anche se meno materiche, forse?

I quadri di Vincent del grande periodo sono molto densi, il colore a grumi esce per spessore dalla superficie della tela, potrebbe rompersi, creparsi. Forse i curatori olandesi hanno vissuto con angoscia questa preoccupazione e alla fine ha vinto l’idea, peraltro giusta, che i quadri originali non devono muoversi dal luogo solito?
Ma perché non dirlo questo alla gente, con assoluta sincerità?
E’ solo un mio sfogo anche perché qui nessuno mi sembra sfiorato dal dubbio, tutti sono allegri, soddisfatti di quanto hanno visto.


Procedo nella dodicesima sala, l’ultima, vedo su una parete curva ad andamento seghettato, una serie di autoritratti, tutti con cornici uguali, di uguali dimensioni.
Sono purtroppo fotografie, oggi diremmo posters, me ne accorgo da lontano, dalla banda bianca inferiore, più larga delle altre tre perimetrali che alcuni hanno.


La mostra è finita, ecco il bancone del guardaroba, e già mi trovo di fronte l’uscita.
Sono contento, eccitato, ma, con un fremito d’inquietudine, scendendo lo scalone, sfoglio di nuovo in una veloce carrellata, il catalogo che ho fra le mani, sontuoso, pieno, memorabile e penso che in fondo questa è una bella mostra, ma riuscita solo a metà.
Stimo che le opere esposte siano circa 85 anziché 127.

Non lo dirò a nessuno, non voglio rovinare la festa a questa gente che sciama vociferando allegra per le scale.


Il sogno per me è finito e mi ritrovo di nuovo alla mia scrivania, chino e perplesso su un mare di carte e di fotografie all’alba del 14 marzo 1993.

Ho davanti alcuni stralci di giornali dell’epoca.

Il Corriere della Sera, il 16 gennaio 1952: ”Il Palazzo ex Reale mobilitato per un biennio. Mentre è in preparazione la grande mostra di Van Gogh, che si inaugurerà il 23 febbraio….”

Il 14 febbraio 1952: ”Le tele di Van Gogh sono arrivate dall’Olanda”.

Il 23 febbraio un articolo di Leonardo Borgese, dal titolo: ”Van Gogh”.

Il 24 febbraio 1952: ”Il senatore Vischia inaugura la mostra di Van Gogh”.

Il 30 aprile 1952: ”Il successo della mostra di Van Gogh”.

Il 14 maggio 1952: ”A tu per tu con Van Gogh”, articolo di Arnaldo Fraccaroli.

E il 23 febbraio sulla Stampa: ”Arte e vita di Van Gogh” di Alberto Rossi;

poi sulla Domenica del Corriere del 24 febbraio 1952: ”Perché è bello Van Gogh” di Anselmo Bucci.

Ancora su Oggi del 28 febbraio: ”Regalò a una amica l’orecchio che si era mozzato” di Marco Valsecchi.


Sul mio tavolo, più in là un dossier con scritto sulla copertina: ”Fotografie sulla mostra di Picasso, anno 1957”.

La tentazione è forte, ma sono stanco.
Di questa vi parlerò un’altra volta….


14 marzo 1993                                    Antonio De Robertis

 

 

 

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